Ragionevole durata del processo: c’è una corresponsabilità tra Stato e parte processuale

La condotta processuale non collaborativa, tenuta da una o entrambe le parti, ovvero da un’autorità terza, non implica di per sé l’esclusione della responsabilità dello Stato per la conseguente dilazione dei tempi processuali, essendo comunque tenuto ad organizzare l’apparato giudiziario in modo da soddisfare la domanda di giustizia in un tempo ragionevole.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25074-2014 proposto da:

T.Q.L., M.M.A., C.C., B.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 36, presso lo studio dell’avvocato GIANANDREA Damiano, tutti rappresentati e difesi dall’avvocato MARCO MANGIABENE, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO ECONOMIA FINANZE (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 824/2014 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA del 16/12/2013, depositato il 23/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2015 dal Consigliere Dott. MANNA Felice;

udito l’Avvocato TEODORO KATTE KLITSCHE DE LA GRANGE, delega allegata al verbale dell’Avvocato MAROCO MANGIABENE, difensore dei ricorrenti, che si riporta ai motivi.

 

Svolgimento del processo

 

Con distinti ricorsi depositati tra il 6.12.2010 ed il 24.1.2011 e di poi riuniti, M.M.A., T.Q.L., B. E. e C.C. adivano, la Corte d’appello di Perugia per ottenere la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento d’un equo indennizzo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, per l’eccessiva durata di un giudizio amministrativo d’ottemperanza nei confronti della USL Roma 16, instaurato innanzi al Consiglio di Stato il 23.10.1997 ed ancora in corso alla data di proposizione delle domande.

Resisteva il Ministero.

Con decreto del 23.5.2014 la Corte territoriale rigettava la domanda.

Ricostruita la sequenza processuale presupposta, la Corte perugina rilevava che per la complessità e la peculiarità del procedimento d’ottemperanza i tempi delle numerose decisioni in esso emesse apparivano ragionevoli, se rapportati agli standard di durata individuati dalla Corte EDU e dalla giurisprudenza di legittimità, giacchè in nessuna fase la decisione era intervenuta a più di tre anni di distanza dall’atto d’impulso dei ricorrenti. Rilevava, quindi, che i tempi intermedi tra una pronuncia e l’altra del Consiglio di Stato non erano dipesi da una condotta negligente dell’autorità giudiziaria, ma dal comportamento colpevole dell’amministrazione tenuta ad eseguire il giudicato formatosi nella fase di cognizione. La P.A., infatti, si era pervicacemente sottratta all’obbligo di conformarsi alla statuizione, oltre che allo specifico ordine di prestarvi piena ottemperanza, contenuto nella sentenza del 20.10.2004. Tale comportamento era stato rilevato e sanzionato dallo stesso giudice amministrativo, con la condanna della Regione Lazio, nel caso di ulteriore inottemperanza, al pagamento della somme previste dal D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 114.

Osservava, quindi, che ove anche si fosse voluto considerare unitariamente lo svolgimento dell’intero giudizio d’ottemperanza, prescindendo, cioè, dalle sue singole fasi originate da atti d’impulso dei ricorrenti, la responsabilità per la durata – in tal caso evidentemente superiore ai tre anni stabiliti per un processo di primo grado – si sarebbe dovuta ascrivere non già all’autorità giudiziaria ma ad una delle parti coinvolte, cioè alla Regione Lazio.

Per la cassazione di tale decreto ricorrono M.M.A., T.Q.L., B.E. e C.C., in base a quattro motivi, cui ha fatto seguito il deposito di memoria.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze resiste con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione “dei principi del diritto internazionale” e della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

In base alla giurisprudenza di questa Corte Suprema, la L. n. 89 del 2001, art. 2, prevede non un diritto al risarcimento del danno, bensì un diritto all’equa riparazione in coerenza con l’art. 41 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Ciò in quanto, a parte l’adozione del termine “indennizzo” (L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 7) sul piano testuale, sono espliciti i richiami all’equità e al limite delle risorse disponibili, mentre risulta l’assenza di riferimenti all’elemento soggettivo della responsabilità. Il diritto all’equa riparazione, come configurato nella L. n. 89 del 2001, deriva da un’attività lecita, quale indiscutibilmente è l’attività giudiziaria, che diviene lesiva a seguito del suo porsi in contrasto con il termine “ragionevole” di cui all’art. 6 della Convenzione Europea, indipendentemente da elementi di colpa di organi giudiziali o di altre autorità dello Stato. Conseguentemente, il riconoscimento dell’equa riparazione non presuppone la verifica della colpa a carico di un agente, essendo invece ancorato all’accertamento di una violazione della Convenzione, come evento in sè lesivo del diritto della persona alla definizione di un processo che la vede parte in una durata ragionevole (Cass., 20 dicembre 2002, n. 18139; nello stesso senso, v. Cass., 26 luglio 2002, n. 11046; Cass., 13 settembre 2002, n. 13422; Cass., 22 ottobre 2002, n. 14885; Cass., 22 gennaio 2003, n. 920).

Nel valutare la durata irragionevole d’un processo occorre, sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte invocata dai ricorrenti, aver riguardo all’attività di qualsiasi organo dello Stato semprechè incidente in maniera oggetti va sulla definitiva risposta, in termini d’effettività della tutela, alla domanda di giustizia.

2. – Il secondo motivo espone, ancora, la violazione o falsa applicazione “dei principi del diritto internazionale” e della L. n. 89 del 2001, art. 2 e art. 6 CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, reiterando le considerazioni del primo motivo in relazione alla posizione del commissario ad acta, quale organo ausiliario del giudice.

3. – Il terzo motivo reitera la medesima censura dei primi due mezzi, con particolare riferimento alla responsabilità dello Stato per organi e soggetti non facenti parte dell’amministrazione della giustizia, nel senso che lo Stato, ai fini dell’applicazione della garanzia di cui alla Convenzione EDU, è responsabile delle condotte tenute sul suo territorio di enti e di individui.

Sostiene, al riguardo, che deve considerarsi organo dello Stato, ai fini della ridetta protezione d’origine internazionale, anche un’unità territoriale o un ente diversi, qualsiasi sia la posizione assunta nell’ambito della complessiva organizzazione statuale.

4. – Il quarto mezzo denuncia il vizio di motivazione sui fatti esposti a sostegno dei tre precedenti motivi, segnatamente quanto alla posizione dei quattro commissari ad acta succedutisi nell’attività d’esecuzione del giudicato.

5. – I motivi, da esaminare congiuntamente per la loro stretta complementarietà, sono fondati.

L’irragionevole durata del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2 (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012) va accertata tenendo presente la complessità della causa e, in relazione ad essa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o, comunque, a contribuire alla sua definizione.

Nell’ambito di tale valutazione globale, che coinvolge parti, giudice e terzi, la giurisprudenza di questa Corte si è prevalentemente espressa nel senso di distinguere tra tempi addebitabili alle parti e tempi addebitabili allo Stato per la loro evidente irragionevolezza, sicchè, salvo che sia motivatamente evidenziata una vera e propria strategia dilatoria, idonea ad impedire l’esercizio dei poteri di direzione del processo propri del giudice, è necessario individuare la durata comunque ascrivibile allo Stato, ferma restando la possibilità che la frequenza ed ingiustificatezza delle istanze di differimento incidano sulla valutazione del patema indotto dalla pendenza del giudizio e, dunque, sulla misura dell’indennizzo da riconoscere (v. Cass. nn. 14750/15 e 1715/08).

La possibilità di imputare allo Stato una data frazione della durata complessiva del processo non è esclusa dall’eventuale difetto di adeguati strumenti normativi, processuali o amministrativi, di coazione o sostituzione. In tal caso, infatti, si configura una “violazione di sistema” conseguente a scelte, ad inerzie o inefficienze comunque riconducibili all’organizzazione dell’apparato pubblico, e come tali rilevanti ai fini dell’art. 6, paragrafo 1 CEDU (cfr. sulle violazioni di sistema, Cass. nn. 7323/15, 29000/05, 15143/05,2148/03 e 358/03).

Nel solco di tale impostazione ermeneutica va dunque ribadito che l’art. 2, comma 2, legge cit. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83/12, convertito in L. n. 134 del 2012) va interpretato nel senso che la condotta non collaborativa di una o di entrambe le parti, ovvero di un’autorità terza richiesta del proprio operato, non esclude la responsabilità dello Stato per la conseguente dilazione dei tempi processuali. Al contrario, lo Stato deve attrezzare il proprio apparato giudiziario in maniera tale da soddisfare la domanda di giustizia in un tempo ragionevole, vincendo se del caso anche le più strenue e ingiustificate resistenze. Queste possono certamente influire sulla valutazione di complessità del processo, e di riflesso sul giudizio di durata ragionevole nel caso concreto, ma non valgono nè a sospendere nè ad attenuare l’obbligo dello Stato di garantire un processo ragionevolmente celere utilizzando opportuni strumenti di governo e di coazione, la cui eventuale carente previsione costituisce “violazione di sistema” ai fini applicativi dell’art. 6, paragrafo 1 CEDU. 5.1. – Nello specifico, la Corte territoriale da un lato, suddividendo l’unico giudizio d’ottemperanza in più fasi, ha rilevato che ad ogni atto d’impulso dei ricorrenti era stata data una sollecita risposta da parte dell’organo giudiziario; dall’altro, valutando la durata complessiva del giudizio, ha ritenuto che l’eccedenza (pur notevole) rispetto al termine triennale di durata standard fosse da imputare alla condotta colpevole dell’amministrazione e al suo atteggiamento defatigatorio e omissivo.

In tal modo, però, è mancato sia il giudizio sull’esercizio effettivo di poteri di coazione contro le ingiustificate resistenze della parte obbligata, sia su di un’eventuale “violazione di sistema” per la mancata previsione legislativa di più penetranti poteri d’intervento ad opera del giudice.

6. – Per quanto sopra, il decreto impugnato va cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Perugia, che nel valutare nuovamente il merito si atterrà al seguente principio di diritto, enunciato ai sensidell’art. 384 c.p.c., comma 1: “la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012), va interpretato nel senso che la condotta non collaborativa di una o di entrambe le parti, ovvero di un’autorità terza richiesta del proprio operato, non esclude la responsabilità dello Stato per la conseguente dilazione dei tempi processuali. Al contrario, lo Stato deve attrezzare il proprio apparato giudiziario in maniera tale da soddisfare la domanda di giustizia in un tempo ragionevole, vincendo se del caso anche le più strenue e ingiustificate resistenze. Queste possono certamente influire sulla valutazione di complessità del processo, e di riflesso sul giudizio di durata ragionevole nel caso concreto, ma non valgono nè a sospendere nè ad attenuare l’obbligo dello Stato di garantire un processo ragionevolmente celere utilizzando opportuni strumenti di governo e di coazione, la cui eventuale carente previsione costituisce “violazione di sistema” ai fini applicativi dell’art. 6, paragrafo 1 CEDU”.

7. – Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese di cassazione, il cui regolamento gli è rimesso ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Perugia, che provvederà anche sulle spese di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile -2 della Corte Suprema di Cassazione, il 5 novembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2016